“Maestro, come faccio a sapere
se sono sulla retta via?
Se soffri stai sbagliando”
Antony De Mello
La sofferenza indica sempre che una strada errata è stata intrapresa, tuttavia la sofferenza non è mai da combattere o eliminare come si pensa, bensì è da correggere.
Iniziamo a introdurre l’argomento con una rappresentazione grafica della distinzione tra dispiacere e sofferenza.
Si prova dispiacere perché si è giudicati in maniera ingiusta, quando non si è considerati e apprezzati, quando siamo coinvolti in conflitti eccessivi, in attese non corrisposte, quando la nostra fiducia è stata tradita o non veniamo rispettati.
Quando c’è un lutto, la perdita del lavoro, la fine di una relazione, la perdita di una amicizia, un allontanamento da parte di qualcuno.
Un esame andato male, un dolore fisico, una perdita finanziaria.
Insomma, le possibilità di trovarci in una condizione che provoca dispiacere sono pressocché infinite, tuttavia mentre sappiamo che per l’animale il dispiacere si prova nel presente e finisce al momento del suo scomparire, per l’uomo compare invece una dimensione differente che lo pone in una condizione diversa:
la dimensione auto-interrogativa.
L’uomo a differenza dell’animale, oltre a patire, si interroga anche sul senso del proprio patire.
Perché mi è successo?
Perché proprio a me?
Perché mi sono meritato questo?
Cosa ho fatto di male?
Non è giusto!
Il dispiacere si caratterizza per il fatto di essere un atto subìto, mentre la sofferenza implica il nostro contributo di pensiero.
Nel primo caso siamo sovente impotenti, nel secondo invece possiamo contribuire al nostro destino alimentando determinati pensieri piuttosto che altri.
Si tratta del delicato passaggio dall’esperienza del dispiacere al senso che questo rappresenta per noi.
A partire dalle risposte che ciascuno dà alle domande che si pone ne possono derivare 2 destini differenti:
- uno mobilitante, capace di produrre pensieri che smuovono lo stato di dispiacere in uno di apprendimento, in cui l’esperienza negativa diventa ‘maestra di vita’
- uno limitante, produttore di sofferenza. Una interrogazione circa il proprio dispiacere che può diventare problematizzato.
IL DISPIACERE COME MAESTRO DI VITA
Il dispiacere può diventare occasione di apprendimento dal momento in cui entriamo in una dimensione di accettazione, più tentiamo di resistere al dispiacere, maggiore sarà la sofferenza che ne deriverà.
Il dispiacere ha per sua natura una dimensione spazio temporale definita, che la sofferenza può trasformare in infinita.
Il dispiacere è energia che può fluire se glielo consentiamo, altrimenti diventa blocco che produce tormento.
IL DISPIACERE E LA SOFFERENZA
Come abbiamo visto il dispiacere può trasformarsi in sofferenza, quando la dimensione auto-interrogativa propone domande e, soprattutto, risposte limitanti.
Potremmo dire che la sofferenza è una reazione indignata, offesa o ferita al dispiacere. Si passa dall’abitare il dispiacere al domandarsi il perché del proprio patire, restando indignati, offesi o feriti.
Perchè il punto è proprio questo: non è il passaggio attraverso l’indignazione o l’offesa ad essere il problema, il problema consiste piuttosto nel restarci o nel non riuscire più ad uscirne.
Incapaci di vedere e di pensare una uscita differente, ne diventiamo vittime, imprigionati in un conflitto tra ciò che potrebbe essere e ciò che non è.
La sofferenza a questo punto può assumere diverse forme:
- come resistenza al dispiacere, in tal caso la sofferenza è causata dal fatto che quell’evento non avrebbe dovuto accadere, che le cose nella nostra testa avrebbero dovuto andare diversamente.
In tal caso ci opponiamo alla realtà, cercando di cambiarla o semplicemente non accettandola. Tuttavia più resistiamo più soffriamo, esponendoci ad una maggiore rabbia e frustrazione, offuscando la possibilità di riuscire a fare il passo successivo.
Si rimane così intrappolati in un conflitto perenne, tra ciò che chiede di essere riconosciuto per ciò che è, e il nostro tentativo di non adeguarci a ciò che è accaduto.
E’ utile imparare ad accettare ciò che può essere modificato e a lasciare andare ciò che non può essere cambiato, possiamo solo accettare, seppure sovente ce lo dimentichiamo.
- come ripetizione infinita del trauma subìto. Indignati, offesi e feriti ci facciamo portatori di offese, di risentimenti e di attacchi ad altri, che magari con il nostro trauma non centrano nulla.
Nella ripetizione vi è il tentativo mal celato di riconoscimento del trauma che tuttavia non riesce, eppure vi è sofferenza e senso di colpa nell’esercizio di queste pratiche ‘offensive’.
- come anticipazione di ciò che potrà accadere, immaginando quanto di più nefasto possa accadere nel nostro futuro, alimentando pensieri di perdita, di morte di noi stessi o dei nostri cari. Immaginando malattie ed anche funerali.
La nostra mente inizia così a produrre storie, che continueranno fintanto che noi continueremo a crederci e ad alimentarle.
- come dolore fisico, quando il corpo inizia a parlare per noi, impossibilitati a mettere in parole il dispiacere che abbiamo provato, il corpo inizia a manifestare il disagio attraverso la sofferenza di alcuni organi.
A questo punto diventa ancora più complesso capire ciò da cui è derivato il disagio, perchè il corpo diventa lo ‘spazio’ in cui il conflitto si manifesta.
L’attenzione, da quel momento, si concentra sul sintomo che diventa l’unico a parlare per noi, solo che noi non lo capiamo e allora cerchiamo a tutti i costi di imbavagliarlo e anestetizzarlo, affinché il dolore cessi il prima possibile.
- come interpretazione errata di ciò che ci accade, dove vissuti di perdita, di mancanza e di ingiustizia prendono il sopravvento lasciando spazio solo ad un pensiero melanconico e deprimente.
A partire da questo momento la situazione in cui si vive diventa penosa, in quanto si trovano penose tutte le cose che si fronteggiano nella vita.
LA CORREZIONE DELL’ERRORE
Correggere il mal capitato pensiero che ci ha indotti in sofferenza è possibile, proprio a partire dal fatto che siamo stati noi stessi ad esserne promotori, seppure sovente invitati da qualcuno.
Attraverso l’aiuto di un altro si può arrivare a correggere l’errore.
L’altro che non è immerso nella nostra acqua riesce a vedere, e ad aiutarci a vedere, ciò che ai nostri occhi è invisibile.
Solo così possiamo comprendere e riuscire a correggere quegli errori che sono portatori di sofferenza..
Se il soggetto titolare è disponibile a verificarne la concludenza o l’inconcludenza, sottoponendola al proprio giudizio, l'errore è correggibile e la sofferenza può cessare.
Ne sono testimone quotidianamente nel mio studio.
Se vuoi anche tu smettere di soffrire, ma da solo non riesci, prenota una visita:
al n. tel. 3478481557
o scrivimi a: info@biancobeatrice.com
Perchè ricorda: "Si può sempre parlare di tutto, ma non con tutti".
Beatrice
Beatrice Bianco
Psicologa esperta da oltre 20 anni
Autrice del libro "Sbloccati"- Anima Edizioni
Attualmente in vendita in formato e-book qui:
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